Mattia Mognetti

IstigKeit

Questi lavori prendono forma dalla ricomposizione di frammenti della mia esperienza, dalla sovrapposizione di diverse passioni e interessi. In primis la psicologia, la psicanalisi e le neuroscienze. La mente e il suo funzionamento, l'inconscio individuale e l'inconscio collettivo, l'astrazione e il simbolismo. Il cervello e i meccanismi che lo caratterizzano in tutta la sua straordinaria complessità, la percezione e la cognizione, le vie percorse dall'informazione visiva per essere concettualizzata e pensata. E ancora l'inconscio. Ma anche l'interesse per le architetture, i loro volumi, le loro geometrie e tessiture, le prospettive, la ripartizione dello spazio, la sua rappresentazione e il potere simbolico che ne scaturisce. Quindi la fotografia, la possibilità di prendere un frammento del reale e di farne un significato, ma anche la possibilità che il significato si impossessi del reale per far emergere sé stesso. E allora, allontanandosi dalla superficie, ancora l'inconscio.

Ogni lavoro di Istigkeit consiste nell'utilizzo di un'architettura (con i  suoi volumi, le sue tessiture, le sue geometrie e la sua illuminazione) come mezzo per la creazione di un elemento astratto, nell'idea di cercare di scardinare i meccanismi percettivo-cognitivi che hanno come esito la sua automatica concettualizzazione, per aprire la strada a significati celati, tanto personali quanto collettivi.

INSPIRATIONS

In sostanza ci si trovava in una situazione in cui veniva visto con sospetto l'abbandonarsi all'uso spontaneo di qualsiasi mezzo, perché si avvertiva che ogni spontaneismo poteva nascondere il massimo di condizionamento. Si era fatta strada l'idea che, in fondo, si vede solo quello che si sa; ma quello che si sapeva era diventato sospetto. Non c'era maestro del pensiero che non insistesse sugli abbagli presi dalla coscienza e non presentasse il soggetto come il ruolo privilegiato di tutte le diversioni. […] Il problema, insomma, era quello della difesa dall'eccesso di condizionamenti, attraverso tecniche che fossero capaci di mettere in cortocircuito la presenza ingombrante dell'Io. E' in questa prospettiva che va vista l'attenzione che gli artisti hanno portato alla crisi dell'identità come ricerca di una crisi salutare per spezzare un involucro inutilmente rassicurante. Con il concetto di «inconscio tecnologico» applicato al mezzo fotografico avevo visto la possibilità di scardinare i miei condizionamenti visivi e arrivare così a vedere quello che non sapevo.

[Franco Vaccari, “Fotografia e inconscio tecnologico”]


Ma questa non è tutta la storia. I drappeggi, come ho scoperto ora, sono molto più che espedienti per la introduzione di forme non rappresentative nella pittura e nella scultura naturalistiche. Ciò che noialtri vediamo solo sotto l’influenza della mescalina l’artista è congenitamente attrezzato a vedere sempre. La sua percezione non è un limite a ciò che è biologicamente o socialmente utile. Un po’ della conoscenza appartenente al Intelletto in Genere supera la valvola di riduzione del cervello e dell’Io e arriva alla sua coscienza. E’ la conoscenza del significato intrinseco di ogni essere. Per l’artista come per il consumatore di mescalina, i drappeggi sono geroglifici viventi che si ergono in maniera particolarmente espressiva per l’insondabile mistero del puro essere. Ancora più della sedia, se bene meno forse di quei fiori assolutamente soprannaturali, le pieghe dei miei calzoni di flanella grigia erano sature di “essenza”. A che cosa dovessero questa condizione privilegiata, non saprei. Forse perché le forme di drappeggi pieghettati sono così strane e drammatiche da conquistare l’occhio e in questo modo forzano all’attenzione il fatto miracoloso dell’esistenza pura? Chi sa? Ciò che conta è meno la ragione dell’esperienza che l’esperienza stessa. Fissando le gonne di Giuditta il Più Grande Emporio del Mondo, appresi che Botticelli - e non solo Botticelli, ma anche molti altri - aveva guardato i drappeggi con gli stessi occhi trasfigurati e trasfiguranti dei miei quella mattina. Essi avevano visto l'Istigkeit, il Tutto e l’Infinito nelle pieghe degli abiti e avevano fatto del loro meglio per renderlo in pittura o in pietra. Necessariamente, e fuori dubbio, senza riuscirvi. Poiché la gloria e la meraviglia dell’esistenza pura appartengono a un altro ordine che anche l’arte più alta non ha il potere di esprimere. Ma nella gonna di Giuditta potrei vedere chiaramente ciò che, se fossi stato un pittore di genio, avrei potuto fare dei miei vecchi calzoni di flanella. Non molto, sa Iddio, in paragone con la realtà, ma abbastanza per far loro comprendere almeno un poco del vero significato di ciò che nella nostra patetica imbecillità chiamiamo “mere cose” e trascuriamo preferendo la televisione.

[Aldous Huxley, “Le porte della percezione”]










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